Il bazooka anti-Covid della Bce

Simone del Rosso
4 min readJun 11, 2020

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Photo by Maryna Yazbeck on Unsplash

Il 4 giugno scorso Christine Lagarde ha annunciato le nuove decisioni di politica monetaria della Bce: il Pepp (Pandemic Emergency Purchase Programme) sarà incrementato di 600 miliardi di euro, rispetto ai 750 miliardi del piano di acquisti titoli già in atto dalla metà di marzo, portando il bazooka di Francoforte a quota 1350 miliardi di euro.

In attesa degli esiti delle trattative nel Consiglio europeo, la Bce si dimostra ancora una volta il più potente strumento “federale” nell’attuale assetto intergovernativo dell’Unione.

Il Pepp è l’ultima riproposizione della politica monetaria di Quantitative Easing introdotta per la prima volta a Francoforte nel 2015, dall’ex Presidente Bce Mario Draghi.

Il Qe consiste nella creazione di moneta da parte di una banca centrale mediante l’acquisto, per un prefissato e annunciato controvalore, di attività finanziarie (azioni, corporate bond, titoli di stato, anche tossici), trasformando in liquidità titoli con basso rating, difficilmente negoziabili sui mercati finanziari, o la cui ordinaria collocazione presso gli investitori risulti molto costosa per il soggetto emittente, dato un elevato livello dei tassi di rendimento.

Gli acquisti sono ripartiti tra la Bce e le banche centrali nazionali in base alle rispettive quote di partecipazione al capitale della Bce (capital key).

La Bce fornisce liquidità alle banche europee acquistando i titoli di stato nei loro portafogli, aumentandone il prezzo e riducendone i rendimenti, permettendo ai paesi europei di risparmiare miliardi di euro, altrimenti impegnati al servizio del debito, da poter impiegare per il finanziamento della spesa pubblica.

Inoltre, l’aumento dei prezzi provoca una riduzione dei tassi di interesse e quest’ultima un aumento dei prestiti con effetti positivi sull’economia reale.

Infatti, la politica monetaria espansiva contribuisce a ridurre in maniera consistente i costi di finanziamento delle banche, ovvero i costi derivanti dalla raccolta di risorse finanziarie per soddisfare il loro fabbisogno di liquidità, che tendono a crescere in periodi di crisi e di più elevata avversione al rischio da parte degli istituti di credito.

L’obiettivo ultimo del bazooka è rilanciare l’inflazione stimolando la ripresa della crescita economica.

Dal 2015 ad oggi l’Eurozona non ha più potuto fare a meno del piano di acquisti della Bce. Con il passaggio del testimone ai vertici dell’Eurotower, non pochi analisti ipotizzavano la fine dell’era delle politiche espansive, secondo alcuni inefficaci per aver condotto l’Eurozona versa deflazione e contrazione dei margini di interesse delle banche, secondo altri decisive e vitali per la sopravvivenza della moneta unica e per la stabilità del sistema bancario (vedi Italia) immischiato in un delicato circolo vizioso tra l’andamento dello spread e i prezzi di mercato dei titoli di stato detenuti tra gli attivi di bilancio dalle stesse banche. Invece, la Lagarde, appena insidiatasi, ha subito chiarito che avrebbe condotto la politica monetaria in continuità con le scelte compiute dal suo predecessore.

Poi sono arrivati la pandemia e il lockwown che hanno inizialmente colto impreparate sia la banca centrale che le istituzioni europee. Il 12 marzo, mentre i Leaders faticavano a trovare un’intesa sul come affrontare uniti a livello comunitario la tempesta, la Lagarde si era lasciata sfuggire l’unica frase che qualunque banchiere centrale non dovrebbe mai dire in una fase di tensione e fibrillazione sui mercati finanziari: “We are not here to close spreads, there are other tools and other actors to deal with these issues”.

I mercati non l’avevano presa bene e i rendimenti dei Btp a dieci anni avevano registrato un’impennata da quota 1,22% all’1,88%. Poche ore dopo c’è stato il ripensamento. Così il 18 marzo il Consiglio direttivo di Francoforte ha lanciato il Pepp.

L’incremento del piano di acquisti era una mossa auspicata dai mercati e dalle autorità governative, viste le revisioni al ribasso dell’inflazione stimata legata alla pandemia (0,3% nel 2020, 0,8% nel 2021, 1,3% nel 2022) e l’incremento stimato del rapporto debito pubblico/PIL per quasi tutti i paesi europei. Il piano di acquisti proseguirà fino alla fine di giugno 2021, o almeno fino a quando non si riterrà conclusa la fase critica legata al coronavirus.

Gli acquisti netti della Bce ammonteranno a 20 miliardi di euro al mese, in aggiunta agli acquisti nell’ambito della dotazione temporanea aggiuntiva di 120 miliardi di euro, fino alla fine del 2020. Il Consiglio direttivo della Bce ha deciso, per ora, di non intervenire con un taglio dei tassi di interesse, con l’ottica di non procedere ad un aumento finché l’inflazione non avrà raggiunto la soglia target prossima ma inferiore al 2%.

La crisi economica che stiamo attraversando probabilmente si rivelerà di gran lunga più grave della crisi finanziaria del 2008 e della crisi dei debiti sovrani 2011–2012. Non si tratta di una crisi finanziaria con effetti sul sistema economico, bensì una crisi dell’economia reale, della produzione e della domanda. Infatti, mentre le borse americane sono tornate stabilmente ai livelli pre-lockdown (anche se stanno registrando elevata volatilità) e i listini italiani stanno proseguendo, seppur con maggior fatica, nella stessa direzione, tutti i parametri macroeconomici sono fortemente negativi.

La Bce sta mettendo in campo un piano di sostegno al sistema finanziario con immissione di liquidità senza precedenti. Tuttavia, questa volta non basterà rafforzare il sistema bancario e la finanza pubblica dei Paesi a più elevato debito pubblico per rilanciare occupazione e PIL.

La Bce a guida Draghi ha utilizzato il Qe per allentare le tensioni sui conti pubblici e sugli spread, ma tale politica sarebbe stata ancora più efficace se accompagnata da una politica fiscale, economica e industriale europea. Tutto questo fino ad oggi è mancato.

Il Covi-19 ha messo l’Ue con le spalle al muro.

Ora non c’è più tempo da perdere.

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