La crisi del Debito Sovrano

Simone del Rosso
9 min readNov 24, 2019

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La crisi dei debiti sovrani (pt.1)

In seguito alla crisi subprime, numerosi istituti di credito europei hanno sperimentato gravi difficoltà e sono stati salvati da interventi pubblici. Questi ultimi hanno amplificato gli squilibri strutturali di finanza pubblica dei Paesi più vulnerabili.

Nell’imminenza dello scoppio della crisi del debito sovrano, i paesi dell’Eurozona presentavano differenze significative nelle condizioni di finanza pubblica e nel tasso di crescita. I cosiddetti Paesi core, come la Germania, si connotavano per livelli contenuti del debito pubblico e per un‘attività economica più solida, mentre i cosiddetti Paesi GIPSI (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia), si caratterizzavano per una maggiore vulnerabilità legata a dinamiche non sostenibili del debito pubblico, dovuta all’indebitamento accumulato negli anni, all’incremento incontrollato del deficit e a bassi tassi di crescita del Pil e al costo delle operazioni di salvataggio degli istituti bancari in crisi.

Nonostante tali differenze, nel 2010 l’Eurozona ha beneficiato della ripresa economica che ha interessato le principali economie avanzate, sebbene con ritmi e modalità eterogenei tra paesi e aree geografiche. Il dissesto dei conti pubblici della Grecia, reso noto nell’ottobre 2009, ha interrotto la ripresa economica e provocato un nuovo inasprirsi della percezione del rischio di credito da parte degli investitori internazionali che ha coinvolto i titoli del debito sovrano. Le quotazioni dei titoli di Stato di molti paesi, per effetto dell’allargamento degli spread, hanno subito un tracollo riducendo drasticamente il valore di mercato del trading book detenuto dalle maggiori banche.

Le maggiori agenzie di rating hanno abbassato il merito di credito di diversi paesi europei e, conseguentemente, di diverse banche con sede in tali paesi o con consistenti esposizioni in titoli pubblici di paesi in difficoltà, amplificando le turbolenze sui mercati.

Il comparto dei titoli bancari, in ragione dei profondi legami con il settore pubblico, è risultato quello maggiormente esposto al contagio, tanto da far registrare, nel 2011, un ribasso superiore a quello degli altri comparti in tutte le economie avanzate. Gli effetti della crisi hanno poi trovato nelle dinamiche connesse alle concessioni di credito bancario un veloce canale di trasmissione verso l’economia reale: a partire dall’inizio del 2009 si sono registrati, infatti, forti segnali di irrigidimento degli standard di concessione del credito da parte del sistema bancario sia in Europa sia negli Usa.

I dati segnalavano evidenze sia del cosiddetto razionamento in senso forte, consistente in un vero e proprio rifiuto di accordare nuovi finanziamenti, sia del cosiddetto razionamento in senso debole, consistente nella concessione di finanziamenti a condizioni tanto onerose da indurre il debitore a rifiutare l’offerta di credito. Dato che le banche detengono tipicamente quote consistenti di titoli pubblici in portafoglio sia per motivi di investimento e come fonte primaria di garanzia nei mercati pronti contro termine, le tensioni sul mercato secondario dei titoli di Stato hanno generato, da un lato un deterioramento della qualità degli attivi bancari e, dall’altro, un aumento del costo della raccolta. Il merito di credito delle banche, inoltre, viene determinato anche dalla garanzia pubblica implicita che risente dello standing creditizio dello Stato di appartenenza.

Per i paesi coinvolti, l’aumento dei tassi di interesse ha incrementato l’onere del servizio sul debito, rendendone più difficile la sostenibilità nel lungo periodo e riducendo la possibilità di utilizzare lo stimolo fiscale per rilanciare l’economia in fase recessiva. La dinamica del mercato dei titoli di Stato ha innescato un circolo vizioso tra rischio sovrano e crisi delle banche le quali, avendo incrementato massicciamente il proprio trading book si sono trovate esposte al rischio di mercato, comportando la riduzione del fair value dei titoli detenuti e quindi perdite che hanno ridotto il patrimonio.

All’incremento del rischio di mercato si è sommato il crescente rischio di credito dovuto al negativo andamento recessivo dell’economia. All’inizio del 2008 i rendimenti dei titoli di stato a scadenza decennale dei paesi membri dell’Eurozona erano allineati, con la differenza più alta tra il 4,4% del Btp Italia e il Bond Grecia e il 4% del Bund tedesco, pari a 40 punti base.

Nel corso del 2009 e del 2010 hanno cominciato a manifestarsi notevoli differenze tra i tassi di interesse dei diversi Paesi. Nel gennaio del 2010 lo spread tra il tasso della Grecia (6%) e quello della Germania (3,3%) era pari al 2,7%, ovvero a 270 punti base.

La crisi dei debiti sovrani (pt.2)

La crisi dei debiti sovrani dell’eurozona si è scatenata definitivamente nel corso del 2011 quando i tassi di interesse della Grecia e dell’Irlanda hanno raggiunto livelli insostenibili, la speculazione si è estesa al Portogallo e successivamente ha attaccato Spagna e Italia. I tre Stati, in presenza di tassi di interesse elevatissimi, si sono trovati nell’impossibilità di finanziare i loro disavanzi e di rinnovare i titoli in scadenza con il ricorso ai mercati finanziari. Sono stati costretti a chiedere l’intervento congiunto del Fondo Monetario Internazionale, della Commissione Europea e della Bce, che hanno imposto condizioni molto pesanti e provvedimenti drastici per riportare il bilancio pubblico in pareggio.

In Grecia e Portogallo la pesante politica fiscale restrittiva, basata su aumenti delle tasse e su tagli alla spesa pubblica, ha prolungato la crisi economica al 2012 e al 2013 con la caduta del PIL e un forte aumento della disoccupazione. L’Irlanda ha mostrato invece una maggiore capacità di reazione e ha anticipato la ripresa al 2011. Nel dicembre del 2013 il Paese è uscito dal programma di aiuti internazionali ed è tornato a rivolgersi ai mercati finanziari per il proprio fabbisogno.

Italia e Spagna non hanno dovuto dichiarare default e far ricorso ai prestiti del Fondo Monetario Internazionale, ma tuttavia hanno dovuto implementare una serie di politiche fiscali restrittive che li hanno condotti verso una nuova recessione nel biennio 2012–2013, dopo la breve ripresa del 2010 e del 2011.

L’attacco al debito pubblico italiano è iniziato nell’estate del 2011 con forti vendite di titoli soprattutto dall’estero. A novembre 2011 il tasso di interesse sui Btp ha superato il 7%, soglia oltre la quale si ritiene che ben difficilmente uno Stato riesca a far fronte ai propri impegni di pagamento degli interessi e di rimborso del debito. La gravità della crisi attraversata dal Paese in quella circostanza è stata provata dalle dimissioni del governo Berlusconi e dall’avvento del governo tecnico di Mario Monti, chiamato dal Presidente della Repubblica al compito di avviare una drastica politica di austerità volta a riportare il disavanzo del bilancio dello Stato entro il limite sancito dal Trattato di Maastricht del 3%.

La crisi dei debiti sovrani nell’area dell’euro si è andata attenuando nella seconda parte del 2012 e al termine del 2013 appariva in buona parte superata, anche se non del tutto risolta. Nel 2013 i tassi di interesse di Italia, Spagna e Irlanda sono ritornati ai livelli di partenza del 2008. Quelli di Francia e Germania sono invece rimasti a livelli molto più bassi, addirittura negativi in termini reali, tenendo conto dell’inflazione secondo la formula di Fisher. Ciò si è verificato a dimostrazione del fatto che gli investitori internazionali hanno ritenuto i titoli di quei Paesi attività rifugio. I tassi di Portogallo e Grecia, pur essendo fortemente calati dai picchi raggiunti al culmine della crisi, erano ancora molto alti e, nel caso della Grecia, fuori mercato. La situazione alla fine del 2013 era caratterizzata da spread ancora piuttosto alti e da un forte stato di incertezza sulle prospettive future dell’area dell’euro.

La crisi dei debiti sovrani (pt.3)

La crisi dei debiti sovrani ha messo in evidenza come nell’area dell’euro si sia venuta a creare una frattura tra Paesi finanziariamente forti e Paesi deboli o ritenuti tali dalla comunità internazionale. Tra i primi possiamo collocare la Germania e altri Paesi del centro-nord Europa; tra i secondi i cosiddetti GIPSI e altri Paesi appartenenti alla fascia meridionale e a quella orientale dell’Eurozona. La Francia occupa una posizione intermedia, più vicina al primo gruppo. I Paesi deboli corrono il rischio di entrare in un circolo vizioso.

L’aumento dei tassi di interesse accresce la spesa dello Stato e lo costringe a manovre economiche eccessivamente restrittive; induce le banche a razionare il credito al settore privato realizzando una condizione di credit crunch; deprime gli investimenti; danneggia le esportazioni poiché aumenta i costi di produzione e abbassa la competitività delle imprese; fa diminuire il reddito nazionale e le entrate fiscali; fa peggiorare di conseguenza i parametri di Maastricht e costringe a nuove manovre restrittive.

I Paesi forti sono avvantaggiati in modo simmetrico dal regime dei bassi tassi di interesse. La causa della debolezza dei Paesi europei, come Italia e Grecia, risiede nella politica fiscale arrendevole dei governi che hanno lasciato lievitare il debito pubblico. Ma questo elemento non potrebbe spiegare la crisi di Spagna e Irlanda che hanno sempre avuto, fino alla recessione del 2008–2009, debiti pubblici particolarmente bassi.

Fuori dall’Europa gli USA hanno un debito pubblico superiore al 100% del PIL, il Giappone presenta un rapporto debito/PIL superiore al 200%. In questi due Paesi i tassi dovrebbero essere molto alti e invece sono tra i più bassi del mondo. La crisi dei debiti sovrani di alcune economie dell’Eurozona può originarsi da altre due cause: l’eccessivo debito esterno sia pubblico che privato che tali economie hanno cominciato ad accumulare sin dai primi anni Novanta del secolo scorso; il mancato completamento del processo di integrazione europea e la insufficiente politica di difesa dei debiti sovrani degli Stati membri dell’UEM.

La Grecia, il Portogallo, la Spagna e l’Irlanda hanno fatto registrare forti disavanzi del conto corrente della bilancia dei pagamenti sin dall’ingresso nell’UEM. Tali Paesi si sono sempre più indebitati con l’estero per pagare l’eccesso di importazioni. Il saldo dell’Italia mostra un segno negativo a partire dai primi anni del nuovo secolo, ma di entità inferiore a quello degli altri GIPSI. All’inizio della crisi, buona parte dell’indebitamento con l’estero dell’Italia era concentrato nel settore pubblico; nell’estate del 2011, quando è iniziato l’attacco speculativo al debito sovrano italiano, circa il 60% di quest’ultimo era in mani straniere; nel corso di pochi mesi, in seguito a una vera e propria campagna di vendite, la quota estera è scesa a circa il 40%.

In modo simmetrico, alcuni Paesi forti come Germania, Paesi Bassi, Austria e Finlandia hanno fatto registrare, dopo l’ingresso nell’UEM, ingenti e duraturi avanzi nel conto corrente della loro bilancia, accumulando crediti nei confronti dell’estero e questo spiega la solidità dei titoli di Stato di quei Paesi. I Paesi i cui tassi sul debito pubblico hanno raggiunto i valori più alti nella media nel triennio 2010–2012 sono quelli che avevano accumulato più debito esterno dalla metà degli anni Novanta.

Le regole e le istituzioni UE si sono dimostrate molto adatte per alcuni Paesi con strutture politiche, sociali ed economiche avanzate, ma problematiche per altri. La seconda causa della crisi dei debiti sovrani è riconducibile alla mancanza di un vero e proprio scudo di difesa dei titoli pubblici nazionali e dei relativi tassi di interesse da parte delle istituzioni europee. In uno Stato dotato di piena sovranità monetaria e di strumenti standard di politica fiscale le autorità competenti sono in grado influenzare le principali variabili economiche in base agli obiettivi che si prepongono. In un sistema economico a cambi flessibili, come va considerata nel suo complesso l’UEM, dovrebbe esistere un bilancio federale con proprie entrate e uscite e un Ministero del Tesoro autorizzato a finanziare eventuali disavanzi con l’emissione di titoli del debito pubblico federale.

La Bce avrebbe poi la possibilità di intervenire sul mercato aperto acquistando o vendendo tali titoli, influenzando il tasso di interesse e, per suo tramite, le altre variabili del sistema economico: investimenti, tasso di cambio, esportazioni e PIL, occupazione prezzi. Il problema dell’UEM è che non esiste un bilancio pubblico federale: le spese dell’UE ammontano a circa l’1% del PIL totale dei paesi dell’area e sono interamente finanziate dai contributi degli Stati membri. Non sono consentiti disavanzi e nemmeno la creazione di un debito pubblico europeo. Non esiste nemmeno un tasso di interesse federale sul quale la Bce possa intervenire.

Esistono soltanto debiti pubblici dei singoli stati membri sui quali la Bce può intervenire in modo molto limitato, non solo per i vincoli posti dallo Statuto della Banca e dai vari Trattati da Maastricht in poi, ma anche perché esiste un’opposizione politica a tali interventi da parte di alcuni Stati, in particolare la Germania. Questa ostilità a una politica monetaria interventista è dettata dal timore che i singoli Stati, di fronte alla possibilità di un sostegno della Banca Centrale, siano indotti a indebitarsi oltre i limiti del Trattato di Maastricht.

La mancanza di una spesa pubblica federale che raggiunga livelli simili a quelli di altri grandi Stati impedisce all’UEM di svolgere una politica di coesione e di sostegno alle regioni e ai Paesi più deboli dell’Unione; inoltre i limiti posti all’azione della Bce impediscono a quest’ultima di svolgere un’azione di vero contrasto agli attacchi contro i debiti pubblici dei singoli Stati.

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