La crisi dei debiti sovrani (pt. 3)

Simone del Rosso
4 min readFeb 18, 2020

--

Photo by Ehud Neuhaus on Unsplash

La crisi dei debiti sovrani ha messo in evidenza come nell’area dell’euro si sia venuta a creare una frattura tra Paesi finanziariamente forti e Paesi deboli o ritenuti tali dalla comunità internazionale.

Tra i primi possiamo collocare la Germania e altri Paesi del centro-nord Europa; tra i secondi i cosiddetti GIPSI e altri Paesi appartenenti alla fascia meridionale e a quella orientale dell’Eurozona.

La Francia occupa una posizione intermedia, più vicina al primo gruppo. I Paesi deboli corrono il rischio di entrare in un circolo vizioso.

L’aumento dei tassi di interesse accresce la spesa dello Stato e lo costringe a manovre economiche eccessivamente restrittive; induce le banche a razionare il credito al settore privato realizzando una condizione di credit crunch; deprime gli investimenti; danneggia le esportazioni poiché aumenta i costi di produzione e abbassa la competitività delle imprese; fa diminuire il reddito nazionale e le entrate fiscali; fa peggiorare di conseguenza i parametri di Maastricht e costringe a nuove manovre restrittive.

I Paesi forti sono avvantaggiati in modo simmetrico dal regime dei bassi tassi di interesse. La causa della debolezza dei Paesi europei, come Italia e Grecia, risiede nella politica fiscale arrendevole dei governi che hanno lasciato lievitare il debito pubblico. Ma questo elemento non potrebbe spiegare la crisi di Spagna e Irlanda che hanno sempre avuto, fino alla recessione del 2008–2009, debiti pubblici particolarmente bassi.

Fuori dall’Europa gli USA hanno un debito pubblico superiore al 100% del PIL, il Giappone presenta un rapporto debito/PIL superiore al 200%. In questi due Paesi i tassi dovrebbero essere molto alti e invece sono tra i più bassi del mondo. La crisi dei debiti sovrani di alcune economie dell’Eurozona può originarsi da altre due cause: l’eccessivo debito esterno sia pubblico che privato che tali economie hanno cominciato ad accumulare sin dai primi anni Novanta del secolo scorso; il mancato completamento del processo di integrazione europea e la insufficiente politica di difesa dei debiti sovrani degli Stati membri dell’UEM.

La Grecia, il Portogallo, la Spagna e l’Irlanda hanno fatto registrare forti disavanzi del conto corrente della bilancia dei pagamenti sin dall’ingresso nell’UEM. Tali Paesi si sono sempre più indebitati con l’estero per pagare l’eccesso di importazioni. Il saldo dell’Italia mostra un segno negativo a partire dai primi anni del nuovo secolo, ma di entità inferiore a quello degli altri GIPSI. All’inizio della crisi, buona parte dell’indebitamento con l’estero dell’Italia era concentrato nel settore pubblico; nell’estate del 2011, quando è iniziato l’attacco speculativo al debito sovrano italiano, circa il 60% di quest’ultimo era in mani straniere; nel corso di pochi mesi, in seguito a una vera e propria campagna di vendite, la quota estera è scesa a circa il 40%.

In modo simmetrico, alcuni Paesi forti come Germania, Paesi Bassi, Austria e Finlandia hanno fatto registrare, dopo l’ingresso nell’UEM, ingenti e duraturi avanzi nel conto corrente della loro bilancia, accumulando crediti nei confronti dell’estero e questo spiega la solidità dei titoli di Stato di quei Paesi. I Paesi i cui tassi sul debito pubblico hanno raggiunto i valori più alti nella media nel triennio 2010–2012 sono quelli che avevano accumulato più debito esterno dalla metà degli anni Novanta.

Le regole e le istituzioni UE si sono dimostrate molto adatte per alcuni Paesi con strutture politiche, sociali ed economiche avanzate, ma problematiche per altri. La seconda causa della crisi dei debiti sovrani è riconducibile alla mancanza di un vero e proprio scudo di difesa dei titoli pubblici nazionali e dei relativi tassi di interesse da parte delle istituzioni europee. In uno Stato dotato di piena sovranità monetaria e di strumenti standard di politica fiscale le autorità competenti sono in grado influenzare le principali variabili economiche in base agli obiettivi che si prepongono. In un sistema economico a cambi flessibili, come va considerata nel suo complesso l’UEM, dovrebbe esistere un bilancio federale con proprie entrate e uscite e un Ministero del Tesoro autorizzato a finanziare eventuali disavanzi con l’emissione di titoli del debito pubblico federale.

La Bce avrebbe poi la possibilità di intervenire sul mercato aperto acquistando o vendendo tali titoli, influenzando il tasso di interesse e, per suo tramite, le altre variabili del sistema economico: investimenti, tasso di cambio, esportazioni e PIL, occupazione prezzi. Il problema dell’UEM è che non esiste un bilancio pubblico federale: le spese dell’UE ammontano a circa l’1% del PIL totale dei paesi dell’area e sono interamente finanziate dai contributi degli Stati membri. Non sono consentiti disavanzi e nemmeno la creazione di un debito pubblico europeo. Non esiste nemmeno un tasso di interesse federale sul quale la Bce possa intervenire.

Esistono soltanto debiti pubblici dei singoli stati membri sui quali la Bce può intervenire in modo molto limitato, non solo per i vincoli posti dallo Statuto della Banca e dai vari Trattati da Maastricht in poi, ma anche perché esiste un’opposizione politica a tali interventi da parte di alcuni Stati, in particolare la Germania. Questa ostilità a una politica monetaria interventista è dettata dal timore che i singoli Stati, di fronte alla possibilità di un sostegno della Banca Centrale, siano indotti a indebitarsi oltre i limiti del Trattato di Maastricht.

La mancanza di una spesa pubblica federale che raggiunga livelli simili a quelli di altri grandi Stati impedisce all’UEM di svolgere una politica di coesione e di sostegno alle regioni e ai Paesi più deboli dell’Unione; inoltre i limiti posti all’azione della Bce impediscono a quest’ultima di svolgere un’azione di vero contrasto agli attacchi contro i debiti pubblici dei singoli Stati.

--

--

Simone del Rosso
Simone del Rosso

No responses yet