Olivetti, lo Steve Jobs italiano
L’impresa sociale
Uno degli esempi di riferimento di imprenditorialità innovativa, a livello mondiale, è rappresentato dall’esperienza dell’azienda Olivetti, fondata nel 1908 da Camillo Olivetti e portata in auge dal figlio Adriano, una delle realtà più importanti sulla scena globale nel campo delle macchine per scrivere, da calcolo e dell’elettronica degli anni Cinquanta. L’Olivetti di Adriano costituisce, ancora oggi, uno dei più interessanti esempi imprenditoriali per quanto riguarda l’applicazione dei principi di economia civile all’agire d’impresa, rappresentando la concreta possibilità di far convivere esigenze produttive, profitto, benessere materiale e pienezza umana “in una prospettiva di etica e responsabilità sociale”. La fabbrica olivettiana non è il mero insieme di operai e macchinari (fattori della produzione), ma luogo di incontro e condivisione tra Persone. Con Olivetti è emerso un nuovo modello di creazione di valore, finalizzato non solo a massimizzare il ritorno economico per gli azionisti ma anche a migliorare la qualità della vita dei dipendenti, dentro e fuori la fabbrica. Adriano ha dato una connotazione visionaria e moderna al concetto di “fare impresa”, inteso, in primo luogo, come processo attraverso cui apportare valore aggiunto alla collettività partecipando allo sviluppo dell’economia e della società; in secondo luogo, come ricerca del connubio tra etica e produzione, modernizzazione e tradizione, economia ed umanesimo. La mission di fondo dell’impresa della “Lettera22” è lo sviluppo economico, sociale e culturale dell’ambiente in cui agisce e con cui scambia input e output.
Non a caso nella seconda metà del Novecento inizia ad articolarsi un più complesso paradigma di ambiente, considerato nelle sue tre variabili fondamentali: complessità, dinamismo e ricchezza. L’ambiente è costituito da stakeholders dinamici e sempre più esigenti e Adriano individua nella Persona (lavoratore, consumatore, cittadino, uomo) il portatore di interesse principale della sua attività.
L’Olivetti era convinto che fosse compito dell’imprenditore garantire a tutti i suoi dipendenti diritti e benessere psico-fisico, aumentando i salari e riducendo le ore di lavoro, garantendo tanti posti di lavoro in più e aumentando la produttività, riducendo il costo unitario del lavoro. Idee coraggiose. E proprio questo suo spirito innovatore lo espose a forti critiche da parte di Confindustria e alcuni imprenditori concorrenti giunsero a definirlo addirittura “filo-sovietico” per il suo modello di organizzazione del lavoro “post tayloriano” che superava la forte contrapposizione tra imprenditore padrone e lavoratore subordinato.
Adriano ha introdotto un vero e proprio modello sperimentale di impresa sociale, attraverso investimenti mirati a rendere il lavoratore protagonista della vita aziendale. Quest’ultimo rispetto ai dipendenti delle altre fabbriche italiane godeva di privilegi inediti come richiedere prestiti all’azienda a un tasso molto più basso delle banche, godere di assistenza giudiziaria e sanitaria all’avanguardia, usufruire del servizio mensa aziendale e dell’abbonamento dei mezzi pubblici a prezzi scontati, associarsi alla Società Cooperativa Edilizia per il Personale Olivetti. Le lavoratrici aveva il diritto a nove mesi di aspettativa retribuiti quasi totalmente, contro i due per legge, e potevano portare i bambini da sei mesi a sei anni all’asilo nido aziendale. Inoltre, tutti i dipendenti avevano la possibilità di proseguire gli studi incoraggiati dall’azienda, ristorarsi dal lavoro in serie dedicandosi alla lettura nella biblioteca di fabbrica o partecipando a spettacoli e conferenze. Il lavoratore doveva avere la possibilità di curare mente, corpo e spirito nelle ore di riposo. Ma soprattutto doveva avere la possibilità di stringere relazioni personali positive con i propri colleghi, rendendo il posto di lavoro più sereno e, di conseguenza, più produttivo. Oggi questi concetti sono alla base del fare impresa. Ma nel capitalismo industriale degli anni Cinquanta del secolo scorso nulla di tutto questo era scontato.
Il modello Olivetti fece notizia anche a livello internazionale. Fu addirittura soggetto ad indagini da parte dell’intelligence statunitense. Forse l’establishment americano temeva un’infiltrazione dei sovietici nel sistema capitalistico industriale italiano proprio attraverso l’influenza di Olivetti?
Uno Steve Jobs italiano
L’Olivetti non si limitò a pianificare il presente, visionario quale era, ma si spinse a programmare il futuro. Guardò oltre. Aveva intuito che stava arrivando l’elettronica. Infatti, nacque il laboratorio elettronici della Olivetti, affidato a Mario Tchou, un giovane ingegnere cino-americano. Purtroppo, Adriano muore nel 1960 e Tchou un anno dopo in un incidente stradale. Nel 1964, una quota rilevante della Divisione Elettronica dell’Olivetti verrà ceduta all’americana General Electric, per il nascere di problemi finanziari. Nel 1968 la GE acquisirà la residua quota. E’ probabile che sulla frettolosa decisione del gruppo di intervento di cedere nel 1964 la Divisione Elettronica abbiano influito più le pressioni esterne che i risultati di accurate valutazioni sulla reale situazione dell’azienda. Molti hanno criticato non solo la miopia di alcuni industriali e finanzieri, ma anche il disinteresse della classe politica che ha ignorato l’importanza strategica delle nuove tecnologie e non è intervenuta per salvaguardare e promuovere il patrimonio di know-how elettronico accumulato in Olivetti. Un patrimonio di grande valore, testimoniato dal successo della Programma 101, il computer programmabile da tavolo realizzato nel 1965 da Pier Giorgio Perotto. Con la cessione della Divisione Elettronica l’Olivetti perde risorse e competenze preziose; la transizione all’elettronica e all’informatica entra in fase di stallo e sfuma la storica opportunità di entrare nel nuovo mondo dei computer in anticipo su molti concorrenti. Un’occasione perduta per l’Olivetti, dunque, che riprenderà la via dell’elettronica più avanti, nel corso degli anni ’70. E forse, un’occasione perduta anche per il Paese e la sua industria. L’Olivetti ebbe l’occasione di guidare la rivoluzione informatica mondiale anni prima della Silicon Valley, di Steve Jobs e di Bill Gates, una rivoluzione tecnologica che aveva le sue radici in una rivoluzione culturale e sociale e in un modello industriale pensato al di là del socialismo e del capitalismo, che il suo promotore, Adriano, aveva cominciato a sperimentare sin dagli anni Trenta ad Ivrea.
L’imprenditore diventa politico
Sulla base di quanto scritto fino ad ora, è chiaro che Olivetti poneva il suo modello di impresa all’interno di una più vasta interpretazione del mondo, che si tradusse anche in una proposta politica.
Ma prima ripercorriamo le tappe più importanti della sua militanza politica.
Dopo la Prima Guerra mondiale, terminato il servizio militare si iscrisse al Politecnico di Torino e iniziò a partecipare in maniera attiva al dibattito sociale e politico, collaborando alle riviste «L’azione riformista» e «Tempi Nuovi» entrando in contatto con Piero Gobetti e Carlo Rosselli. Durante la Seconda Guerra mondiale, si oppose al regime fascista attraverso una militanza attiva e partecipò con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini e altri alla liberazione di Filippo Turati. Per concezione formativa era vicino al movimento politico “Giustizia e Libertà”. Negli anni della Seconda Guerra riparò in Svizzera da dove si mantenne in contatto con la Resistenza. Dal 1931 la questura di Aosta (dalla quale l’imprenditore necessitava la certificazione di appartenenza alla razza ariana a causa delle origini del padre ebreo) definì il giovane Olivetti come sovversivo. Rientrato dal suo rifugio alla caduta del regime, riprese le redini dell’azienda.
Alla fine del 1945 pubblicò il suo libro “L’ordine politico delle comunità”, nel quale sono espresse quelle idee che supporteranno il Movimento Comunità, che va considerato la base teorica per un’idea federalista dello Stato che, nella sua visione, si fondava appunto sulle comunità, vale a dire unità territoriali culturalmente omogenee e economicamente autonome. Divenne un sostenitore del federalismo europeo dopo aver conosciuto Altiero Spinelli durante l’esilio in Svizzera, iniziato da Olivetti nel 1944 a causa della sua attività antifascista.
Nel 1948 fondò a Torino il “Movimento Comunità” e si impegnò affinché si realizzasse il suo ideale di comunità in terra di Canavese. Nel 1956 fu eletto sindaco di Ivrea e due anni dopo ottenne due seggi in Parlamento candidandosi con il Movimento Comunità.
Il movimento, che tentava di unire sotto un’unica bandiera l’ala socialista con quella liberale, assunse nell’Italia degli anni cinquanta una notevole importanza nel campo della cultura economica, sociale e politica. Scopo dell’iniziativa politica era creare un movimento socio-tecnocratico di una trentina di deputati in grado di costituire l’ago della bilancia fra DC e PCI. La battaglia politica di Olivetti fu volta alla promozione di una società più giusta e sana.
Le teorie comunitarie di Olivetti non hanno perso, oggi come allora, lo smalto rivoluzionario. Occhetto nella sua biografia di Olivetti scrive: “faranno tremare i neoliberisti di ogni frangia, da sinistra a destra; provocheranno ai marxisti un coccolone, soprattutto quando leggeranno che il PCI rifiutò la collettivizzazione della fabbrica; saranno motivo di riflessione sul corporativismo per i nostalgici; colpiranno come un gancio nello stomaco gli atlantisti, visto che furono proposte agli Alleati per la ricostruzione e rimasero inascoltate; sorprenderanno finanche i pentastellati (non canavesani) quando leggeranno che Adriano Olivetti fu il primo a indicare la scarsa democraticità dei partiti politici, a privilegiare il sociale, a chiedere di integrare il suffragio universale con altre forme di selezione , a sottolineare l’esigenza delle competenze per dirigere la vita pubblica”.
Sempre Occhetto scrive che fu anche “il primo a sostenere il piano decentrato, il piano comunitario dove l’urbanistica coordina l’economia. Il primo a battersi per l’accentramento delle metropoli, per uno sviluppo equilibrato fra città e campagna, fra industria e servizi. Il primo a immaginare alcune delle richieste esplose nel 1968 sul modo nuovo di produrre, di fare le fabbriche” e il primo a comprender che “la critica alle nazionalizzazioni non può risolversi nel trionfo del capitalismo indiscriminato, deve invece tradursi in forme nuove che organizzino la partecipazione”.
Insomma, ancora oggi i temi posti dal Movimento di Olivetti sono attuali e sarebbe utile per tutti noi ricordare e studiare la sua storia e il suo pensiero libero e progressista: «La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica, giusto? Occorre superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura. A volte, quando lavoro fino a tardi vedo le luci degli operai che fanno il doppio turno, degli impiegati, degli ingegneri, e mi viene voglia di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza».